Il FMI e il dogma dell'austerity



È passato ormai un anno da quando il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato uno studio interessante che sfata, numeri alla mano, il mito dei “conti in ordine”. Vengono esaminati la bellezza di 173 casi nell’arco degli ultimi 30 anni in 17 economie avanzate al fine di  raccogliere abbastanza informazioni sugli effetti che hanno sul Pil e sull’occupazione le politiche di risanamento dei conti.
I risultati sono chiari: ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le tasse per un ammontare pari all’1% del Pil riduce i redditi aggiustati all’inflazione di circa lo 0,6% e aumenta il tasso di disoccupazione di quasi lo 0,5% nel giro di 2 anni. I numeri sono da raddoppiare, e quindi la riduzione del Pil supera l'unità (supera quell'aggiusamento dell'1% del Pil nei conti pubblici), se le banche centrali non possono tagliare i tassi di interesse e quando diversi paesi portano avanti contemporaneamente politiche volte al consolidamento fiscale (sì, come in Europa e mezzo mondo).
Un anno è passato senza ripensamenti.
Una ricerca più recente del FMI, datata luglio 2012, esamina gli effetti sul Pil delle politiche di austerità tenendo conto delle diverse fasi in cui si trova l’economia.  In questo modo coglie le differenti conseguenze che una stessa politica può avere se adottata in recessione o espansione. Lo studio, in particolare, calcola gli effetti dell’austerità sul Pil negli Stati Uniti, in Giappone, e nell’Eurozona, concentrandosi poi su Francia e Italia. Il risultato è che un taglio della spesa pubblica equivalente all'1% del PIL provoca una caduta fino al 2,56% del PIL per l'Eurozona, del 2% per il Giappone e del 2,18% per gli Stati Uniti. Riguardo l'Italia si va dall'1,4% all'1,8%. Guardando i numeri della ricerca, si nota come l’austerity adottata in recessione sia ancora più dannosa (sì, noi siamo in recessione e stiamo ancora puntando sull’austerity) e come i tagli sulla spesa pubblica siano più dannosi degli aumenti delle tasse (sì, noi stiamo attuando manovre calibrate più sui tagli alla spesa che sugli incrementi della pressione fiscale).
Un trimestre è passato senza ripensamenti.
Un working paper recentissimo, targato sempre FMI, rivede addirittura le stime sul moltiplicatore fiscale. C’è qualcosa di storico nell’ammissione di aver sottostimato gli effetti delle variazioni della spesa pubblica e della tassazione sul Pil. Il moltiplicatore veniva quantificato in genere come 0,5: una manovra di consolidamento fiscale pari a 100 ridurrebbe il Pil di 50.  La stima è oggi rivista e oscilla tra 0,9 e 1,7: una manovra pari all’1% del Pil comporta una contrazione della crescita quasi sempre superiore all’1%. Questo vuol dire, usando le parole di Galimberti, che con l’austerity “il bilancio non si risana mai, perché il Pil minore riduce le entrate fiscali e crea disoccupazione”.
Ci saranno ripensamenti?
Da parte dei leader di Eurolandia non se ne vedono e da parte del nostro premier Monti neanche. Le elezioni si avvicinano e le primarie del centrosinistra sono imminenti. Non vanno sprecate votando qualche dogma liberista travestito da (una strana concezione di) responsabilità.

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